“I COMUNISTI HANNO UCCISO DI PIU'”

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Andrea Pitto (“nazipedochirurgia”)

1)

Si avvicina il 25 aprile e, come al solito, si riaccende la polemica su fascismo e antifascismo e sul fatto che i “comunisti” abbiano causato più morti del fascismo.
Cose dette e ridette ma ripeto ugualmente  le seguenti riflessioni.

Il “comunismo” è un sistema di idee e talvolta è stato una pratica sociale e politica, seppur breve e limitata geograficamente.

Non si hanno esperienze storiche “comuniste” stricto sensu, come quella attribuita all’Unione Sovietica, si hanno soltanto finzioni storiche cui è attribuito l’appellativo di “comuniste”. Sono finzioni in quanto comuniste e non in quanto esperienze storiche con connotazioni peculiari, ovviamente.

Ciò viene creduto per ignoranza bella e buona o per interessi privati (timore di perdere i propri averi) ed entrambe le motivazioni portano a pensare e credere appunto cose errate nella sostanza.

Quindi non ha senso dire che abbia “ucciso di più!!” il comunismo, come sostengono certuni.

Il fascismo, invece, è stato un sistema politico autoritario che ha governato, oltrechè l’Italia, anche la Germania , sotto forma di nazismo, la Spagna e quant’altro.

Ancora, si può dire che il fascismo sia una struttura caratteriale, un comportamento, una personalità, fondata sul sado-masochismo (servi e padroni a seconda del grado gerarchico in cui si trova il fascista, un po’ duce, un po’ gregario) che rappresenta inoltre uno strumento del potere, delle classi padronali, specie quando si trovano in condizioni congiunturali.

Se non è possibile gestire la situazione con il consenso si arriva ad assoldare la feccia fascista che poi, a volte, viene messa sotto vuoto in attesa che divenga nuovamente utile oppure la si integra nel nuovo ordinamento sociale a questo punto giustamente chiamato reazionario.
Ogni contesto storico ha comunque delle varianti proprie.

Il fascismo va e viene a seconda dei bisogni del capitalismo.

Talvolta connotazioni fasciste emergono anche laddove si proclami l’antifascismo militante o si seguano dottrine di “sinistra” .
Ma questo discorso, come il precedente, è già stato fatto ad libitum.

Per inciso ricordo che W. Reich, com’è risaputo, ha fatto un’analisi precisa e sostanzialmente corretta della struttura caratteriale fascista.

2)

    E’ necessario fare maggior chiarezza su alcuni punti appena menzionati .

Il fascismo ha realizzato effettivamente uno stato fondato sui principi da esso dichiarati che si evincono dal suo programma (e dagli scritti di Mussolini, dal Mein Kampf o dal Mito del xx secolo).

Del resto è facile in fondo costruire un sistema basato sull’imposizione di regole e leggi che vengono incontro ai detentori di capitale, avendo quindi a disposizione la forza delle armi e della propaganda.

Imporre il principio  gerarchico e la sottomissione al più forte in queste condizioni non è un’operazione difficoltosa per un potere autoritario che per giunta ha sovvenzioni da parte del grande capitale.

E’ relativamente facile obbligare la popolazione a credere e a combattere. Una popolazione, per altro, in Italia,  al tempo largamente analfabeta, che comunque non era certo in grado di far fronte alle aggressioni delle squadre fasciste che col manganello, l’olio di ricino e le armi da fuoco, imponevano la loro autorità coercitiva.

Insomma, è semplice imporre piuttosto che convincere, con l’esempio e la ragione, che quanto si va affermando sia il meglio per la maggior parte degli individui in un determinato contesto storico.

Ma in nessuna epoca storica è accettabile l’imposizione della forza, la repressione della libertà e della critica, l’accettazione delle differenze di classe, la gerarchia che pone dei malfattori alla sua sommità col potere di vita e di morte sul prossimo.

Anche se sappiamo che la realtà è proprio questa, sfortunatamente.

Riguardo al “comunismo”, invece, esso è un progetto sociale che emerge dal pensiero di moltissimi intellettuali e dallo spontaneo desiderio delle moltitudini di opporsi allo sfruttamento del lavoro e alla mancanza di libertà.

Esso prevede appunto la messa in comune dei mezzi di produzione e delle ricchezze che vengono prodotte in una determinata società.

Questa socializzazione non può essere gestita da uno stato — ci tengo a precisare che siamo in una riflessione critica la quale cerca di delineare i significati dei concetti che vengono usati, comunismo e fascismo — poichè lo stato non è mai in grado di porsi come strumento nelle mani della popolazione ma richiede sempre per sè stesso una larga quota di interessi. Interessi che vengono assorbiti dalle persone concrete che gestiscono lo stato. Si forma così ineluttabilmente una èlite che si astrae dalla popolazione diventando una struttura che impedisce il libero svolgimento non solo dell’economia ma anche della vita in comunità.

Le èlite, oltre ai privilegi di natura economica, possiedono quelli riguardanti il potere tout court.

Se invece ciò avviene (che lo stato si appropria dell’economia e della finanza) ci si allontana dalle teorie comuniste autentiche.

Siccome ciò è sempre avvenuto nella realtà dei fatti,  il comunismo non è mai comparso nella storia.

Dunque non è corretto affermare che il comunismo abbia fatto più vittime del fascismo.

Un’entità che non si è mai concretizzata realmente nell’agone sociale al massimo può causare commenti e riflessioni.

Il fascismo, ripeto, è tutt’altra cosa.

Esso è stato effettivamente un regime in molte parti del mondo e in diverse epoche storiche.

Di esso si può dire che abbia causato persecuzioni, guerre, stermini.

Il fascismo è la degenerazione sistematica del pensiero e dell’azione come conseguenza di un potere imposto che eventualmente ha potere anche di convincimento siccome è relativamente facile fare appello ai desideri di prevaricazione del singolo promettendogli che è l’-uomo nuovo- o appartenente al popolo dei dominatori.

E intanto muore per le nefandezze relative agli interessi economico-finanaziari sempre in gioco (guerre, povertà, ecc.).

Ovviamente il liberismo non è un’alternativa comunistica alla società (nessuno lo pensa, infatti), al contrario, è evidente che pur volendo meno stato il liberismo costruisce una società in cui il laissez faire produce iniquità sociali ancora maggiori o perlomeno di portata analoga allo stato che gestisce a 360 gradi le risorse, incluse quelle  umane di una società.

I progetti per far fronte a questa impasse sono molti ma sono localizzati soltanto nell’ambito delle ipotesi o dei desideri.

Ambito, in altri termini,  del “non ancora” secondo quanto affermava il filosofo tedesco Ernst Bloch.

Tuttavia è sempre  bene precisare, ripeto, i termini in uso oggi, anche nel linguaggio comune,  che soffrono di un’ignoranza risibile, ammesso che essa sia soltanto ignoranza e non “paraculaggine” bella e buona.

E’ necessario comunque essere consapevoli che i temini-concetto risentono anche del loro uso consolidato nella pratica colloquiale, questione che Ludwig Wittgenstein prese tanto in considerazione da inaugurare una svolta nella propria filosofia.

3)

    Sembra, a questo punto, che non vi siano alternative possibili per realizzare una società in grado di assolvere le necessità dell’individuo e della società nel suo complesso.

    Il fascismo evidenzia con la sua pratica storica che in alcuni momenti  è il prodotto necessario delle classi al potere che si trovano in difficoltà.

In conseguenza di ciò esse si servono dapprima di materiale umano senza scrupoli,  spronato da desideri di ottenere privilegi (se non altro quello di essere al comando di un manipolo o addirittura di investire il carattere di popolo delle origini, popolo elitario in quanto tale) e successivamente, all’uopo, mantengono un’impostazione fascista (autoritaria, coercitiva, totalitaria) che in un primo tempo, appunto,  caratterizza  solo un insieme di   strumenti  di sopraffazione, ma poi  si struttura e diviene stato fascista, declinato a seconda delle epoche storiche e dei contesto geografici.

    Il comunismo, come abbiamo detto, non ha mai potuto divenire stato o società strutturata. Se si escludono, ripeto, poche e brevi esperienze sociali, come quelle avvenute in Catalogna, prima e durante la Rivoluzione Spagnola del 1936-9, ad esempio, o come la struttura sociale dei pigmei, per fare un altro esempio un po’ più lontano da noi, ma di esempi in tal senso se ne potrebbero fare altri altrettanto significativi.

    Dunque il comunismo attribuito, facendo un riferimento adeguato e concreto (talvolta si usa l’espressione comunismo reale)  all’Unione Sovietica o alla Cina (specie quella attuale), è una sorta di paradosso che, reiterato nel tempo, ha fatto assumere all’insieme delle teorie, delle proposte, degli orientamenti genericamente chiamati “comunisti”, significati  di negatività.

   Invece le proposte “comuniste” sono, di una straordinaria umanità (si pensi che vengono attribuite anche a gruppi cristiani, a Tolstoj o a Cristo stesso, sia pure nell’incertezza della sua esistenza storica) e quindi sono  sempre da tenere in considerazione laddove si discetti di come strutturare una società per far sì che in essa vi sia il minor numero di elementi negativi e il maggior numero di aspetti orientati alla libertà e alla giustizia distributiva.

   Correlata, però, al comunismo c’è la pratica della rivoluzione che complica alquanto la situazione.

    La rivoluzione che taluni attribuiscono  al fascismo è soltanto un artefatto, una mitologia ad uso e consumo di una certa propaganda (e indirizzata sostanzialmente ai cretini),  dato che questo non cambia la società nella sua sostanza, ma nelle sue apparenze. Non vi è alcun giro completo della società, nessun rivolgimento radicale, al più un piccolo movimento verso un certo  e famigerato lato destro (alludendo alla dicotomia politica),  in altre parole una reazione, un consolidamento della Tradizione. Reazione e Tradizione    sono  il contrario della rivoluzione, anche se a volte  assumono l’aspetto e gli atteggiamenti rivoltosi – meglio ribellistici —  di questa.

Infatti i  detentori del capitale permangono — a volte, non sempre, con un certo avvicendamento — così come le peculiarità delle società antiche e moderne, fondate sul principio gerarchico e l’oppressione del più debole in favore del più forte (leggasi  dipendente- lavoratore e padrone), parimenti rimane il meccanismo dell’accumulo di ricchezze nelle mani di pochi (adesso tutti fascisti, poi democratici, poi liberisti , ecc.) .

Alcuni pensano possa essere non cruenta altri invece la immaginano come ineluttabilmente violenta, giacchè le classi al potere difficilmente cedono i loro privilegi.

    Gli esiti di una rivoluzione sono anch’essi ambito di congetture e comunque è questo un altro degli aspetti controversi quando si prospettano cambiamenti sociali di una certa importanza, visti anche gli esiti storici di situazioni in cui si sono verificate rivoluzioni  concluse in modo tragico, ma specialmente con esiti non voluti, cioè non determinati dai progetti, dalle intenzioni, dalle azioni, dei rivoluzionari stessi.

    Il liberismo (o neo-liberismo che dir si voglia), mi pare,  si commenti da solo. La politica del lasciar fare, della libertà assoluta, che poi è la libertà degli imprenditori-capitalisti-finanzieri di gestire i propri affari senza tenere in alcun conto lo sfruttamento del lavoro, l’impoverimento delle genti,  l’inquinamento atmosferico, al contempo provocando guerre, colpi di stato a seconda delle necessità del momento.

    Non ultimo è da considerare l’effetto del capitalismo globalizzato nei riguardi dello “spirito” del tempo e riguardo alla struttura caratteriale delle popolazioni che vivono il liberismo fondato sul profitto e sull’inondazioni di merci, spesso assolutamente non necessarie.

    L’individuo e le masse si trasformano così, siamo nella nostra quotidianità, in consumatori compulsivi dediti ad ogni passione che prospetti un micropiacere, ma senza considerare che le necessità fondamentali non vengono per nulla affrontate come sarebbe il caso di fare.

    L’esistenza  rimane alle dipendenze non solo del padrone (datore di lavoro, imprenditore) ma di qualsiasi altro oggetto-piacere venga incontrato nel proprio cammino.

Dipendenza che per definizione allontana dall’autonomia e per ciò stesso dal pensiero critico nonchè dalla pratica che potrebbe allontanare la dipendenza stessa dal quotidiano ed eventualmente orientare verso impegni sociali nel senso della trasformazione radicale della società.

  Rimane l’autoimplosione, cioè la pratica dell’autoconsapevolezza individuale quella che già alla fine degli anni ’70, alcuni sociologi americani, tra cui  Christopher Lasch, chiamavano “smania di autoconsapevolezza” che induce anche la formazione di gruppi di aiuto (che poi di aiuto lo sono in modo assai relativo)   in un contesto che reputa il privato (o il ritorno al privato) come l’unica possibilità di far fronte alla drammatizzazione dell’esistenza.

   Tuttavia questa contrapposizione tra privato e pubblico è soltanto apparenza. Non è possibile che vi sia davvero autentica   contrapposizione in una società, semmai viene a crearsi una situazione organica al sistema stesso. Tale contrapposizione apparente è  inclusa nel pacchetto del capitalismo liberalizzato “a manetta”.

    E’  però possibile, anzi inderogabile,  che la privatizzazione, la psicologizzazione dei drammi sociali, divenga una sorta di farmaco avente la funzione di calmare gli spiriti, di renderli, docili e al contempo di lenire una parte dell’ansietà, neutralizzando al contempo nuovamente le capacità critiche e quindi le possibilità di vera trasformazione della realtà esterna, sociale e politica.

    Si ritorna ad uno spirito religioso laicizzato, talvolta ateo che non ha nulla da invidiare a quello di un tempo, quando la religione era strumento diretto e manifesto di potere.

   La condizione contemporanea è questa, seppur estremamente sintetizzata.

     Alcuni sostengono, rifacendosi allo stoicismo greco o alle teorie morali di Epicuro che dobbiamo adattarci, seppur con cognizione di causa, ad una sorta di apatheia o atarassia, vivere cioè senza molta enfasi e senza emozioni i differenti eventi e le diverse condizioni dell’esistenza. Mettendosi in qualche modo in disparte, porsi in una sorte di torre d’avorio da cui osservare gli umani che vivono, soffrendo o vivono alla grande nel lusso e negli agi.

Ma anche questa posizione è confacente al sistema delle merci.

    Mettersi in disparte consumando è la posizione di gran lunga più frequente del nostro tempo (la patologia iikikomori,  stare isolati per mesi o anni nella propria stanza, è un esempio estremo in questo senso ed è davvero istruttivo) e tuttavia, è evidente, non possa essere altro che un vero e proprio danno nei confronti dell’ individuo appartenente ad una specie definita, paradossalmente e comicamente, sapiens.

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