RIFLESSIONI SU FOLLIA E POESIA (in progressione)

CANE

Alcuni sostengono che “folli” e “poeti” vedano la realtà d’acchito, per quello che è, senza mediazioni razionali.

Il “folle” non ha barriere e diffonde se stesso nel mondo, fluidificandosi in esso.
A volte sembra che sia proprio così.

Il lavoro poetico è, tuttavia, fondato, prevalentemente o accessoriamente, sulla creatività, sulla percezione riflessiva, sulla capacità cioè, di comporre frasi che rispecchino sentimenti o addirittura di esprimere, in senso proprio, la “bellezza”.

Anche la “bruttezza”, comunque, può essere l’esito del lavoro poietico, nonostante questa tenda a essere misconosciuta, messa tra parentesi, oppure considerata sotto la lente della nostalgia, delle “passioni tristi”. Essa, quindi, è stata tendenzialmente rimossa per lungo tempo.

Agli inizi del Novecento, l’Espressionismo che, specie in pittura, si diffuse a partire da Francia e Germania, cominciò a esprimere, talvolta con scene strazianti, il “brutto”, che così trovò poi asilo anche in poesia, se già non era presente da tempo, ad esempio nel teatro tragico greco.

Sembra, tuttavia, che il lavoro del poeta sia molto ricettivo verso le passioni tristi e sia orientato perfino verso quelle pregne di violenza e distruzione, essendo in grado di tramutarle o utilizzarle per creare rappresentazioni stimolanti, tali da indurre una sorta di paradossale compiacimento in chi legge, oltreché, naturalmente, in chi le compone.
Insomma, anche l’orrorifico, il brutto, il tragico, attivano una ricezione che, seppur, spiacevole, può avere la funzione di smuovere la mente da una persistente piattezza e condurla, con la fantasia attivata, verso mondi e vissuti stimolanti.

Del resto, l’antipsichiatria di Cooper, Laing, Esterson  ha, in un certo senso, decretato la scomparsa dei “pazzi”.

Nel senso che essi sono i soggetti più sensibili che vivono in condizioni familiari o comunque sociali definite “schizofrenogene”.

Questa caratteristica li avvicina ai poeti, così come ne abbiamo testimonianza generica nel corso dei tempi: persone sensibili, o particolarmente sensibili, appunto, che esternano con le parole i propri moti interni (almeno così “si dice”).

Naturalmente vi sono spesso dei “pazzi” che non producono poesie e dei poeti che non sono né “pazzi”, né particolarmente sensibili.

Questi ultimi sono soltanto animati da quote importanti di narcisismo e utilizzano al meglio, specie nel caso diventino celebri, le risorse che casualmente hanno a disposizione: famiglia abbiente, tempo a disposizione, conoscenze adeguate, amanti che contano, fortuna-casualità e capacità, questa sì, basata sulla ragione calcolante, di capire cosa la gente voglia leggere. Dunque scrivono assecondandola, consciamente e, a volte, inconsciamente.
Questo discorso vale, naturalmente, anche per altri ambiti come Pittura, Scultura, Musica, e quant’altro.

Alcuni poeti scrivono, inoltre, cripticamente per dar l’impressione di avere chissà quali misteri da svelare e in quali abissi della mente siano costantemente immersi e invece, quasi sempre, sono soltanto più o meno abili e opportunisti assemblatori di parole.

Tuttavia la realtà per come si manifesta è, forse purtroppo, percepibile anche, se non soprattutto, con la ragione, persino in assenza di particolari doti sensibili.

Anzi, la ragione giunge a sancire l’ineluttabilità tragica dell’esistenza (Nietzsche), laddove la poesia riesce, talora, a renderla sopportabile con elaborazione di immagini spesso edulcorate, particolarmente piacevoli all’ascolto o alla lettura (sorta di antidolorifico momentaneo).

O ancora agendo in senso catartico.

La “follia”, dal canto suo, ammesso che si possa parlare in questi termini con cognizione di causa, rappresenta spesso il rifiuto della realtà che, come si diceva prima, è vista e vissuta per quello che effettivamente manifesta di sé, hic et nunc.
In alternativa, il mondo viene modificato “fantasmaticamente”.

Il pericolo che certuni, assillati dalle visioni presenti nel loro orizzonte mentale, ammorbino il loro pensiero fino a giungere a condizioni autoreferenziali e/o paranoidi è, ad ogni modo, concreto.

Allora la sofferenza (la sofferenza?) si affaccia all’esistenza spesso riducendo ogni capacità cognitiva, rimanendo soltanto quella confabulatoria che spesso è priva di sbocchi relazionali.

La consapevolezza razionale, dal canto suo, oltre certi limiti, auto implode e provoca danni gravi sotto il profilo psichiatrico e esistenziale.

I pazzi, i poeti e i critici-decodificatori dell’Apparato, vedono la realtà ciascuno con i mezzi propri.

Anzi direi che i mezzi a disposizione,sensibilità, ragione, “creatività”, siano sempre e comunque utilizzati, seppur in diverse proporzioni, dalle categorie anzidette.
Ergo: non farei aut… aut: o ragione o sensibilità irragionevole-follia. L’intelletto o la creatività.

Ma parlerei in funzione di un et… et, rimanendo nel latino, magari nel latinorum.
La ragione unita alla sensibilità e a quel tanto di creatività, che i più fortunati si trovano come dotazione spesso soltanto genetico-casuale, sono le migliori caratteristiche per poter fare poesia.

Sì, anche un po’ di “follia” non guasta, naturalmente!

I “veri poeti”, dunque non sono e non possono essere senza ragione. Cioè privi di capacità cognitive. C’è  qualcuno che afferma ciò?

Devono o dovrebbero essere capaci di elaborare pensieri e poi scriverli in modalità “poetica”, anche se a volte, per esigenze poetiche, appunto, evitano il ” principio di non contraddizione”, caposaldo della logica da Aristotele in poi. Sebbene qualcuno abbia cercato di confutarne la pregnanza.
(vedi anche: https://andreapitto.wordpress.com/2015/04/11/della-poesia-le-attivita-mentali-implicate-nella-poesia-lambiscono-la-razionalita-e-mordono-la-fantasia/).

Ma non tutto ciò che elude la logica (principio di non contraddizione, in primis) è di per sé poetico o folle, nonostante si manifesti con parole e proposizioni.

Ad esempio, i paradossi, anzi i paradossi religiosi, nella fattispecie cattolici. Il dogma della Trinità, facendo un riferimento paradigmatico, affermatosi almeno dal primo Concilio di Nicea del 325 d.C.

Esso è costituito da parole che compongono un asserto il quale non segue la realtà conosciuta con i sensi e contrasta con la ragione: Dio, unico in sè,  formato da un’unica sostanza semplice ma consustanziale a tre persone, uguali e distinte.

Una “creazione” poetica?

No. Magari sì, pensando burlescamente. Semplicemente un assemblaggio di parole che tendono a indurre confusione nei “credenti”, che poi, al fine di lenire il disagio indotto in loro, accettano per fede, senza cioè capire,  il significato della proposizione, affidandosi alle interpretazioni suggestive di preti e teologi (in altre occasioni rabbi e imam).D’altronde non si può capire ciò che viene concepito per non essere compreso.

E la sottomissione fideistica irrobustisce così le sue radici.

Dopo questi sintetici ragionamenti, un cenno va fatto anche al potere, che potremmo definire inibitorio, della ragione, cioè del pensiero logico e codificato.

Insomma, mi riferisco alle costruzioni verbali e scritte che seguono prevalentemente la ragione e quindi la logica, utilizzate per farsi capire dagli altri e,forse, per capire e ordinare ciò che noi stessi pensiamo.

Ebbene, nell’atto della poetica”creazione”  le codifiche logiche possono essere d’intralcio. Qui intendo per “creazione” la  giustapposizione-assemblaggio, e non  nel senso divino: dal nulla qualcosa.

Bene. Che siano oltrepassate quando se ne ravvisi la necessità.

Ma l’oltrepassamento non può significare l’eliminazione, la nullificazione del mondo logico.

Significa accompagnarsi (confliggendo, in sintonia, o magari controllandolo) ad esso con nuove, inedite, interessanti, curiose, accattivanti, profonde, superficiali, tristi, gioiose, sentimentali, amorevoli, delicate, aggressive, violente, mortifere, spirituali, composizioni semantiche.

Facendo questo, ammesso se ne abbia la capacità o la volontà, sarebbe meglio non entrare in un mondo altro, detto della follia o della “depresso-consunzione”, anche se quasi sempre non è possibile decidere in anticipo la meta che verrà raggiunta: la strada da percorrere è quella che troviamo di fronte, sotto, in alto e ai lati, dentro noi stessi.
Spesso è già tracciata e, magari, è sempre la medesima.

Ma lasciamo stare questi teleologismi che sembra rendano la realtà, non soltanto poetica o immaginata, inemendabile.
Un po’ di speranza alla Ernst Bloch (“Il principio speranza”), mi pare indicazione pedagogica e, in fin dei conti, pure terapeutica.

Forse davvero ognuno di noi è fondamentalmente oltrepassato dal contesto, dallo spirito del tempo, in cui si evolve la propria esistenza (Foucault, Levi-Strauss, ecc.).
In che misura, comunque, non è possibile saperlo e solo l’azione personale può, se non altro, far credere che invece la nostra volontà determini fondamentalmente la realtà, anche e forse soprattutto sociale, che ci è dato vivere.

In conclusione, si fa per dire, la ragione, intesa come coscienza e autocoscienza, senza entrare in sottigliezze semantico-filosofiche, può essere tranquillamente “passata per le armi”, essendo, con tutta probabilità, un “errore” evolutivo contro cui si debbono fare i conti ogni giorno.

Tuttavia è anche possibile essere razionali senza avere l”autocoscienza, ma pure questo è un discorso lungo e irto di ostacoli, tangenziale alle questioni poesia, follia, ragione, oggetti di riflessione di questo breve articolo.

PS
Interessante vedere come a cavallo tra il secolo ‘400 e ‘500 si esprima, riguardo alla follia, Erasmo da Rotterdam, col suo celebre “Elogio della follia” .
Inoltre, per seguire le concezioni sulla follia a partire dall’Età Classica, è utile leggere l’altrettanto celebre  “Storia della follia nell’Età Classica”, del filosofo francese M. Foucault.

FREUD E LA FANTASIA (inconscio, letteratura, poesia) – appunti –

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Andrè Derain

Freud aveva già fatto riferimenti alle fantasie nel 1887 (Minuta M) dicendo che derivano “dall’intreccio inconscio di cose sperimentate e udite, secondo certe inclinazioni” (Op. complete, Boringhieri, Vol 2, p.62).
Esse prendono forma da un lavoro, prevalentemente inconscio, di distorsione e fusione. Come si trattasse di un “corpo chimico”.
La fantasia si costituisce sulla frammentazione e sulla ricomposizione a seguito di inedite giustapposizioni.

Ritornando nel breve scritto “Il romanzo familiare dei nevrotici” (1908) al tema della fantasia ad occhi aperti, Freud introduce il concetto di “romanzo familiare”.
Il nevrotico e gli individui “eccezionalmente dotati “ operano con la fantasia sulle relazioni familiari, componendo trame che hanno la finalità di appagare quei desideri costantemente frustrati nell’infanzia per la presenza del genitore (o figure analoghe) autoritario, fonte coercitiva di ogni fede e norma.

Il romanzo familiare trasforma il vissuto reale in qualcosa di fantastico.
In un primo momento (infanzia) esso non po’ ancora attingere alla conoscenza sessuale, ma viene ulteriormente elaborato nell’epoca dello sviluppo, quando diventano chiare (o meno oscure) le funzioni sessuali degli stessi genitori. Con l’acquisizione di queste conoscenze, il nevrotico, dice Freud, ha a disposizione ulteriori elementi e dettagli per contrastare, almeno con la fantasia, gli atteggiamenti e le restrizioni genitoriali.
Il romanzo familiare, in sostanza, riesce a soddisfare qualsiasi aspirazione, ad esempio annullare il rapporto di parentela con una sorella o un fratello verso il quale si prova attrazione sessuale, rendendolo, così, legittimo e sottraendolo alla vergogna o al senso di colpa.

Nella formazione di queste trame originali e fantastiche sono in gioco sia le componenti coscienti che quelle inconsce, seppur, caso per caso, variamente dosate.
In definitiva, la creazione di un romanzo familiare, che Freud, indica essere modalità generica, sia pure rinforzata dalle personalità nevrotiche (sosteneva che i suoi pazienti erano identificati con l’intera umanità, per dire che ognuno ha tratti nevrotici ), si fonda sul rifiuto della realtà che viene sostituita da mondi più consoni alle aspirazioni del soggetto. Come possiamo facilmente arguire è questo l’ambito proprio dell’artista che, con la sua fantasia, elabora opere che appagano le sue necessità represse e/o puramente estetiche.

Più precisamente, l’artista sa come rendere fruibili, quindi esteticamente eccitanti, gradevoli, suggestive, le produzioni fantastiche derivate dalle sue pulsionalità inconsce e dai desideri (confessabili o meno) coscienti.

L’artista, secondo Freud, si discosta dalla realtà dato che  non è in grado di accettare la rinuncia pulsionale che quella impone (morale, obblighi, ecc.), così realizza i suoi sogni nelle opere che produce. In certa misura egli sa distinguere la fantasia dalla realtà, anche se non è possibile separare nettamente il nevrotico dall’artista – molti artisti, forse tutti, sono nevrotici e viceversa – laddove il nevrotico “puro” difficilmente riesce a fare un giusto discrimine tra principio di realtà e principio di piacere. Tuttavia l’artista riesce a “mordere” la realtà proprio utilizzando le sue fantasie allorquando, per esempio, diventa importante e celebre, in altre parole diviene l’eroe sognato, il prediletto amato, il sovrano che si erge sulla volontà dei sottoposti. Sottoposti, cioè i fruitori delle opere d’arte, che “provano la sua stessa insoddisfazione per la rinuncia imposta dalla realtà” (vol. 6, p.459).

Il romanziere famoso è doppiamente favorito dalla sorte: da una parte è capace di infondere linfa vitale ai suoi desideri che nelle opere divengono come reali, creando una realtà, appunto, che distorce le sue esperienze frustranti e addirittura ne capovolge, a piacimento, il senso.
Dall’altra, col suo operato, effettivamente manipola il mondo al fine di giungere alla gratificazione (successi editoriali, ecc.), in modo tale che le sue aspirazioni eccentriche, egomaniche, eroiche, trovano riscontri negli altri che lo esaltano, procurandogli, nei casi più fortunati, maggiori disponibilità per esaudire i suoi molteplici desideri (infantili, sessuali, megalomanici, di potere, ecc.).
Il vero artista, per Freud, elabora, quindi, i suoi sogni a occhi aperti, facendo in modo che non siano esattamente riconducibili alle proprie esperienze personali, mantenendo, inoltre, una certa distanza dalle “fonti proibite” e infine “diventino godibili anche per gli altri “(vol. 8, pag 531).
Questo lavoro è reso possibile dalle doti personali dell’artista, doti, la cui origine è “misteriosa”, “un particolarissimo segreto”(come scritto in precedenza), rendendolo capace di modellare le fantasie inconsce e/o quelle a occhi aperti, tanto da procurare piacere, un piacere che, almeno momentaneamente, riesce a sopraffare e abolire le rimozioni del fruitore e, ovviamente, di se stesso.
“Onore, potenza e amore”, a questo punto, possono venir realizzati nella realtà e rappresentano il precipitato, la concretizzazione, delle fantasie dell’artista.

L’inconscio è, in ogni modo, il terreno da cui si articolano tutte le formazioni artistiche, tanto più quelle letterarie, se non altro perchè, come affermava Lacan, esso è strutturato come un linguaggio e quest’ultimo, appunto, rappresenta il materiale grezzo utilizzato per scrivere poesie, racconti e romanzi.

Il concetto d’inconscio ha subito, in seguito, notevoli variazioni e oggi si tende a parlare più spesso genericamente di processi non coscienti, anche perchè la stessa coscienza è ancora un fenomeno-processo che sfugge a qualsiasi precisa delimitazione.

Freud era consapevole, comunque, che prima di lui l’inconscio rappresentava il serbatoio da cui gli scrittori di tutte le epoche attingevano nel forgiare le loro opere, anch’essi convinti che gran parte delle motivazioni, tendenze, desideri umani, fossero mossi da sollecitazioni che sfuggivano alla mente consapevole.

L’Io non è mai stato padrone in casa propria, diceva Freud, perchè le spinte, spesso impercettibili o del tutto occultate, del materiale inconscio hanno continuamente influenzato l’esistenza umana, sia nel versante psicologico, che considerandone le ripercussioni in altri ambiti più generali, come quello culturale.

Del resto per Freud, l’” uomo universale “Goethe, probabilmente il più importante letterato tedesco, era riuscito a sondare l’animo umano come pochi altri avevano fatto. Soltanto Shakespeare e Dostoevskij, pensava, potessero essergli paragonati.
Viste queste premesse è consequenziale che la letteratura sia stata fin dagli inizi, sottoposta a “trattamento” psicoanalitico. Ciò è avvenuto partendo essenzialmente da due opposti punti di partenza.
Il primo utilizzando la letteratura stessa, con i suoi miti e le sue narrazioni, come fonte da cui trarre spunti per le concettualizzazioni psicoanalitiche. A questo proposito ricordo nuovamente, il mito d’Edipo, sulla scorta del quale Freud ha basato l’intera psicoanalisi.

Il secondo punto di partenza vede invece la psicoanalisi adoperarsi per analizzare i testi, cercando di decodificare i molteplici aspetti psicologici dei personaggi e capire la scelta delle trame, per arrivare, eventualmente, a stilare un profilo dell’autore. Senza trascurare, naturalmente, l’impatto che un autore o un romanzo specifico ha col lettore, categoria valutata, a seconda dei contesti, di volta in volta discreta o generica.
Nel 1927, Freud scrive Dostoevskij e il paricidio, in cui delinea la personalità del grande scrittore russo distinguendone “quattro sfaccettature: lo scrittore, il nevrotico, il moralista e il peccatore” (Vol.10, p521). Un lavoro che definisce di sconcertante complessità, a cui s’impegna utilizzando la griglia interpretativa psicoanalitica.

Quando un autore come Dostoevskij sceglie personaggi violenti, egoisti e assassini, ciò indica che nel suo intimo sono presenti le medesime tendenze.
Inoltre è possibile dedurre dai romanzi che ha scritto alcuni fatti della sua vita, come la passione per il gioco, di cui successivamente accennerò in modo più dettagliato, e un probabile abuso sessuale su una minorenne.
Freud dice che Dostoevskij era animato da fortissime pulsioni distruttive che avrebbero poturo facilmente indurlo alla criminalità, ma si diressero, invece, contro lui stesso, manifestandosi come masochismo e sentimenti di colpa.
Tuttavia anche tratti sadici della sua personalità emergevano dalla sua mente, manifestandosi, continua Freud, anche nei confronti degli stessi lettori.

Dostoevskij si dice fosse affetto da una forma di epilessia che Freud credeva di natura fondamentalmente isterica e facesse parte della sua nevrosi.
Con gli attacchi epilettici egli eliminava somaticamente “masse di eccitamento” che poteva , così, controllare psichicamente, anche se, in effetti, non si trattava di un vero e proprio controllo.
Il destino drammatico cui fu vittima il padre dello scrittore spiega , poi, le modalità impiegate nella descrizione dell’assassinio del padre nei Fratelli Karamazov.

Dostoevskij, nell’infanzia, prima ancora di avere episodi epilettici, soffriva di attacchi di panico caratterizzati da una intensa paura della morte che lo coglieva anche durante il sonno. Aveva, inoltre, terrore di cadere in stati simili alla morte stessa e di essere sepolto ancora vivo. A questo proposito aveva l’abitudine, prima di addormentarsi, di lasciare biglietti su cui era scritto di seppellirlo, eventualmente vi fosse stata questa triste necessità, almeno cinque giorni dopo il suo presunto decesso.

Il parricidio è, secondo Freud, il delitto primordiale dell’umanità. Ne fa una descrizione specie in Totem e Tabù (1912-13), dove ipotizza che l’orda dei fratelli uccida il padre per disporre della madre e delle sorelle.
Anche se non è l’unica fonte del senso di colpa, il parricidio ne rappresenta certamente l’elemento di maggior rilievo.

Naturalmente il soggetto maschio non prova soltanto desideri delittuosi verso la figura paterma, ma anche forti sentimenti di amore e ammirazione che lo inducono a identificarsi con essa, completando, così, il rapporto “ambivalente” padre figlio.

In questa travagliata relazione – che, tra l’altro interessa solamente il maschio, nella classica visione maschiocentrica della prima psicoanalisi – entra, com’è noto, anche la paura di castrazione, vissuta come possibile punizione che il padre imporrebbe al figlio per i suoi desideri verso la madre.

D’altra parte, dice Freud, vi è nel figlio anche l’intenso desiderio di essere amato “come una donna” dal padre. Qui entrano in campo le componenti bisessuali della personalità che Freud aveva ipotizzato fin dagli inizi, sulla scorta degli insegnamenti del suo amico e collega Wilhelm Fliess.

Con la bisessualità si pone anche il problema dell’omosessualità, che subentra quando il maschio enfatizza i suoi desideri d’amore in relazione al padre.
E’ comunque certo, afferma Freud, che la nevrosi si rafforza proprio quando emerge in modo particolare la disposizione bisessuale, come nel caso di Dostoevskij che diede sempre notevole importanza alle amicizie maschili e si comportò in maniera “eccessivamente affabile contro i rivali in amore”. (Vol 10, p. 528).
L’omosessualità latente dello scrittore russo, sarebbe anche dimostrata dalla sua “eccezionale intelligenza” nella descrizione di situazioni ad alto contenuto emotivo, situazioni, che, per Freud, evidentemente, sono molto vicine alla personalità omosessuale.

L’ambivalenza affettiva, provata da Dostoevskij verso il padre, verrebbe poi “messa in scena” dallo stesso attacco epilettico, che solitamente inizia con un’ “aura” che troverebbe analogia con un senso di “trionfo” e liberazione nel sapere della morte del padre. Aura poi seguita dall’accesso vero e proprio che, al contrario, viene avvertito come spiacevole (se è cosciente ) e rappresenta la fase della punizione per aver provato il senso di esaltazione iniziale.

Tra l’altro, dice Freud, interpretare gli attacchi epilettici come punizione può essere giustificato, seppure l’ipotesi non è dimostrabile, dal fatto che Dostoevskij, durante il periodo in cui era confinato in Siberia, pare non ne avesse sofferto, perchè, appunto, il suo bisogno di punizione era già soddisfatto dalla deportazione (1850-1854).
Un quinquennio senza epilessia in cambio di un duro soggiorno in galera.
Chissà se Dostoevskij valutò vantaggiosa quella sostituzione, ammesso avesse ragionato in quei termini.

Molti delinquenti, afferma Freud, vogliono inconsciamente essere puniti, seguendo le esigenze del loro Super-io, perchè in questo modo delegano alla società la punizione che altrimenti dovrebbero infliggersi da se stessi.
L’intenzione parricida dello scrittore russso, determinò anche altri aspetti della sua psicologia, specie riguardo l’atteggiamento verso lo stato e Dio.
In entrambi i casi è implicato il rapporto con l’autorità, che a partire da quella paterna, nel corso della vita, influisce con tutte le altre figure e istituzioni dotate delle stesse caratteristiche.

Nei confronti dello stato, Dostoevskij arrivò, infine, a sottomettersi allo zar senza ripensamenti, diventando in sostanza un reazionario, proprio lui, che in gioventù era stato un sovversivo e per questo mandato al confino.

Verso Dio, invece, ebbe dubbi fino alla fine della sua esistenza, passando più volte dall’ ateismo alla fede.

Il parricidio, eseguito realmente o soltanto fantasticato, rappresenta per Freud, il tema base su cui hanno ruotato almeno tre grandi capolavori della letteratura di tutti i tempi: l’Edipo re di Sofocle, l’Amleto di Shakespeare, e i Fratelli Karamazof di Dostoevskij.

In quest’ultimo romanzo, come nel dramma inglese, a compiere effettivamente l’assassinio non è, comunque, l’eroe, ma uno dei suoi fratelli che tuttavia ha “lo stesso rapporto filiale dell’eroe Dmitrij”.

Nell’Edipo invece l’assassinio viene compiuto dal protagonista in persona, ma senza la consapevolezza che l’assassinato sia il padre. Insomma tutto viene giocato tra impulsi inconsci che determinano azioni coscienti.

Freud cerca, poi, di far luce sulla febbre del gioco di Dostoevskij che non si tranquillizzava se non quando aveva perso tutto, qualcosa che sembra contraddire ciò che comunemente si crede essere la ragione dello stesso giocare d’azzardo, cioè vincere magari senza lavorare e senza impegnarsi realmente nell’esistenza.
Ma anche questo vizio si inseriva nella sua pratica d’espiazione. Il soddisfacimento paradosso e masochistico che gli procurava la perdita al gioco lo facevano apparire alla moglie come un “vecchio peccatore”, a cui richiedere umiliazione e disprezzo, sgravando così la coscienza delle sue colpe.

Il risvolto positivo di questi drammatici momenti era costituito dal fatto che, giunto alla disperazione più nera, avendo perso tutti i suoi averi, si rimetteva a scrivere forsennatamente (era uno scrittore molto richiesto dagli editori), perchè l’inibizione alla scrittura era dovuta in gran parte proprio al suo bisogno di essere punito in qualche maniera e la perdita al gioco era una modalità che gli si confaceva e , in fondo, per certi versi anche stimolante.

Per di più il gioco, secondo la psicoanalisi, sostituisce l’onanismo: vizio del gioco e coazione onanistica hanno molteplici analogie.
Non vi è alcuna nevrosi grave, dice Freud, che non sia caratterizzata dal conflitto tra pratica masturbatoria e autorità paterna (genitoriale) tesa a reprimerla.

Come abbiamo visto sostanzialmente è l’idea di inconscio che ha influenzato gli scrittori nel costruire le loro trame, attenti ai vissuti psicologici dei protagonisti che, attraverso la psicoanalisi, potevano essere compresi meglio nella loro pur immaginosa psicologia e, così, descritti, all’occorrenza, in maniera più efficace e profonda.

Molte formulazioni e tematiche freudiane sono comunque state utilizzate in letteratura.
Abbiamo visto l’inconscio e il rapporto edipico, adesso aggiungo, tra i tanti, il narcisismo, il feticismo, la coazione a ripetere, la colpa, il lutto e la melanconia, il ritorno del rimosso.
Queste tematiche sono alla base di romanzi universalmente celebri, come, per fare soltanto alcuni riferimenti, quelli di Shakespeare, Lawrence, Wilde, Mann o dei classici come Omero, Dante e Ariosto.