LA POESIA, IL NARCISISMO, LA NEGAZIONE, L’INVIDIA

CARA
Caravaggio

    In sintesi: non c’è nulla di più inutile della poesia.

In altre parole, l’attivita poetica ha una utilità marginale e comunque è autoreferenziale. Sembra che sia aggregante, giacchè, ad esempio, si leggono poesie tra appassionati in tal senso, ma, a ben guardare, ognuno sente (ammesso sia così) e apprezza soltanto le proprie parole messe in sequenza.

Tale situazione è molto frequente (molto frequente, ripeto) nei poeti che leggono poesie altrui.

Riguardo ai soli lettori il discorso è diverso e reputo non sia il caso di approfondirlo in queste brevi riflessioni.

Una conferma di quanto appena scritto è la scarsissima risposta degli appartenente ai gruppi di poesia su facebook (rimango in questo contesto, per il momento). Non mi riferisco soltanto ai “mi piace”, del resto riduttivi e generalisti, ma ai commenti, anche quelli minimali, che scarseggiano, anzi, possiamo dire che manchino quasi del tutto.

Salvo, in alcuni gruppi essere abituale esprimere commenti corrosivi, dileggianti, ironici, aggressivi e quasi mai di elogio argomentato.

Eppure l’elogio argomentato – come la critica argomentata – dovrebbe essere uno stimolo a fare meglio, a capire eventuali errori di espressione o comunque far comprendere che c’è qualcosa che non è in sintonia con quel o quei lettore/i.

Dovrebbe (l’eterno “sollen”) far meditare meglio su quanto si scrive, senza necessariamente cambiare successivamente i propri testi o cambiandoli se si reputa che la tal critica sia genuina, di aiuto effettivo nell’affinare il proprio percorso poetico.Invece tutto tace.

In ogni foro interiore spesso accadono sentimenti contrastanti: da un lato dileggio, come dicevo prima, dall’altro invidia.Entrambi sono sentimenti, “vissuti”, che, in fondo, hanno la medesima origine e si possono tratteggiare come segue:

a) io sono più bravo, guarda cosa scrive questo “coso”! Non è davvero il caso di considerarlo, al massimo lo “degno” di una parola sarcastica (i più colti, nella loro torre d’avorio, usano però di rado anche il sarcasmo).

b) (in un momento di consapevolezza) questo “coso” scrive davvero bene… ma no, è soltanto un’impressione momentanea, facciamo come se non avesse scritto nulla.

La “negazione” pone rimedio a quella che, nella grammatica freudiana, si definisce “ferita narcisistica”.

Sì, il narcisismo è una delle componenti più evidenti del mondo poetico (e non solo, ovviamente), è una spinta propulsiva molto forte che induce all’autoreferenzialità e quindi alla chiusura rispetto agli altri che magari sono proprio considerati come l’inferno (l’inferno sono gli altri, diceva Sartre).

Pure l’invidia ha la sua parte eppure è una causa misconosciuta, non ammessa da chi ne sente, anche sporadicamente, l’influsso.

L’invidia è un sentimento, un vizio, che corrode la mente, che non produce piacere, a differenza degli altri vizi, essa miete vittime inconsapevoli le quali sul piano sociale, a loro volta, sono causa di malesseri, di sofferenze, di soprusi, di plagi.

Spesso intere esistenze sono distrutte dall’invidia, in senso passivo o attivo.Il plagio è un altro elemento interessante che riguarda la poesia, l’arte, ma anche il mondo scientifico e quant’altro.

L’inutilità della poesia nel mondo delle merci riacquista, per altri versi, un’utilità soggettiva, autoidentitaria, psicologica, anche se solo di rado permette alle autentiche potenzialità creative del nostro Sistema Nervoso Centrale, così parsimoniosamente distribuite tra i Sapiens, di esprimersi in modo originale e oggettivamente artistico.In conclusione l’etereo mondo della poesia è infranto e percorso da narcisismo, autoreferenzialità, negazione, sarcasmo, invidia e tuttavia, come spesso mi accade di scrivere negli ultimi tempi, occorre scrivere, scrivere e ancora scrivere poesia.

Perchè?

Ognuno risponda quel che crede, considerando sempre che la poesia non è un ambito puro in cui si esprime il nostro essere, ma un mondo spurio che soltanto a tratti può scrollarsi di dosso veramente ciò che potremmo chiamare il “passivo e omologante narcisismo” del mondo contemporaneo.

CARA

RIFLESSIONI SU FOLLIA E POESIA (in progressione)

CANE

Alcuni sostengono che “folli” e “poeti” vedano la realtà d’acchito, per quello che è, senza mediazioni razionali.

Il “folle” non ha barriere e diffonde se stesso nel mondo, fluidificandosi in esso.
A volte sembra che sia proprio così.

Il lavoro poetico è, tuttavia, fondato, prevalentemente o accessoriamente, sulla creatività, sulla percezione riflessiva, sulla capacità cioè, di comporre frasi che rispecchino sentimenti o addirittura di esprimere, in senso proprio, la “bellezza”.

Anche la “bruttezza”, comunque, può essere l’esito del lavoro poietico, nonostante questa tenda a essere misconosciuta, messa tra parentesi, oppure considerata sotto la lente della nostalgia, delle “passioni tristi”. Essa, quindi, è stata tendenzialmente rimossa per lungo tempo.

Agli inizi del Novecento, l’Espressionismo che, specie in pittura, si diffuse a partire da Francia e Germania, cominciò a esprimere, talvolta con scene strazianti, il “brutto”, che così trovò poi asilo anche in poesia, se già non era presente da tempo, ad esempio nel teatro tragico greco.

Sembra, tuttavia, che il lavoro del poeta sia molto ricettivo verso le passioni tristi e sia orientato perfino verso quelle pregne di violenza e distruzione, essendo in grado di tramutarle o utilizzarle per creare rappresentazioni stimolanti, tali da indurre una sorta di paradossale compiacimento in chi legge, oltreché, naturalmente, in chi le compone.
Insomma, anche l’orrorifico, il brutto, il tragico, attivano una ricezione che, seppur, spiacevole, può avere la funzione di smuovere la mente da una persistente piattezza e condurla, con la fantasia attivata, verso mondi e vissuti stimolanti.

Del resto, l’antipsichiatria di Cooper, Laing, Esterson  ha, in un certo senso, decretato la scomparsa dei “pazzi”.

Nel senso che essi sono i soggetti più sensibili che vivono in condizioni familiari o comunque sociali definite “schizofrenogene”.

Questa caratteristica li avvicina ai poeti, così come ne abbiamo testimonianza generica nel corso dei tempi: persone sensibili, o particolarmente sensibili, appunto, che esternano con le parole i propri moti interni (almeno così “si dice”).

Naturalmente vi sono spesso dei “pazzi” che non producono poesie e dei poeti che non sono né “pazzi”, né particolarmente sensibili.

Questi ultimi sono soltanto animati da quote importanti di narcisismo e utilizzano al meglio, specie nel caso diventino celebri, le risorse che casualmente hanno a disposizione: famiglia abbiente, tempo a disposizione, conoscenze adeguate, amanti che contano, fortuna-casualità e capacità, questa sì, basata sulla ragione calcolante, di capire cosa la gente voglia leggere. Dunque scrivono assecondandola, consciamente e, a volte, inconsciamente.
Questo discorso vale, naturalmente, anche per altri ambiti come Pittura, Scultura, Musica, e quant’altro.

Alcuni poeti scrivono, inoltre, cripticamente per dar l’impressione di avere chissà quali misteri da svelare e in quali abissi della mente siano costantemente immersi e invece, quasi sempre, sono soltanto più o meno abili e opportunisti assemblatori di parole.

Tuttavia la realtà per come si manifesta è, forse purtroppo, percepibile anche, se non soprattutto, con la ragione, persino in assenza di particolari doti sensibili.

Anzi, la ragione giunge a sancire l’ineluttabilità tragica dell’esistenza (Nietzsche), laddove la poesia riesce, talora, a renderla sopportabile con elaborazione di immagini spesso edulcorate, particolarmente piacevoli all’ascolto o alla lettura (sorta di antidolorifico momentaneo).

O ancora agendo in senso catartico.

La “follia”, dal canto suo, ammesso che si possa parlare in questi termini con cognizione di causa, rappresenta spesso il rifiuto della realtà che, come si diceva prima, è vista e vissuta per quello che effettivamente manifesta di sé, hic et nunc.
In alternativa, il mondo viene modificato “fantasmaticamente”.

Il pericolo che certuni, assillati dalle visioni presenti nel loro orizzonte mentale, ammorbino il loro pensiero fino a giungere a condizioni autoreferenziali e/o paranoidi è, ad ogni modo, concreto.

Allora la sofferenza (la sofferenza?) si affaccia all’esistenza spesso riducendo ogni capacità cognitiva, rimanendo soltanto quella confabulatoria che spesso è priva di sbocchi relazionali.

La consapevolezza razionale, dal canto suo, oltre certi limiti, auto implode e provoca danni gravi sotto il profilo psichiatrico e esistenziale.

I pazzi, i poeti e i critici-decodificatori dell’Apparato, vedono la realtà ciascuno con i mezzi propri.

Anzi direi che i mezzi a disposizione,sensibilità, ragione, “creatività”, siano sempre e comunque utilizzati, seppur in diverse proporzioni, dalle categorie anzidette.
Ergo: non farei aut… aut: o ragione o sensibilità irragionevole-follia. L’intelletto o la creatività.

Ma parlerei in funzione di un et… et, rimanendo nel latino, magari nel latinorum.
La ragione unita alla sensibilità e a quel tanto di creatività, che i più fortunati si trovano come dotazione spesso soltanto genetico-casuale, sono le migliori caratteristiche per poter fare poesia.

Sì, anche un po’ di “follia” non guasta, naturalmente!

I “veri poeti”, dunque non sono e non possono essere senza ragione. Cioè privi di capacità cognitive. C’è  qualcuno che afferma ciò?

Devono o dovrebbero essere capaci di elaborare pensieri e poi scriverli in modalità “poetica”, anche se a volte, per esigenze poetiche, appunto, evitano il ” principio di non contraddizione”, caposaldo della logica da Aristotele in poi. Sebbene qualcuno abbia cercato di confutarne la pregnanza.
(vedi anche: https://andreapitto.wordpress.com/2015/04/11/della-poesia-le-attivita-mentali-implicate-nella-poesia-lambiscono-la-razionalita-e-mordono-la-fantasia/).

Ma non tutto ciò che elude la logica (principio di non contraddizione, in primis) è di per sé poetico o folle, nonostante si manifesti con parole e proposizioni.

Ad esempio, i paradossi, anzi i paradossi religiosi, nella fattispecie cattolici. Il dogma della Trinità, facendo un riferimento paradigmatico, affermatosi almeno dal primo Concilio di Nicea del 325 d.C.

Esso è costituito da parole che compongono un asserto il quale non segue la realtà conosciuta con i sensi e contrasta con la ragione: Dio, unico in sè,  formato da un’unica sostanza semplice ma consustanziale a tre persone, uguali e distinte.

Una “creazione” poetica?

No. Magari sì, pensando burlescamente. Semplicemente un assemblaggio di parole che tendono a indurre confusione nei “credenti”, che poi, al fine di lenire il disagio indotto in loro, accettano per fede, senza cioè capire,  il significato della proposizione, affidandosi alle interpretazioni suggestive di preti e teologi (in altre occasioni rabbi e imam).D’altronde non si può capire ciò che viene concepito per non essere compreso.

E la sottomissione fideistica irrobustisce così le sue radici.

Dopo questi sintetici ragionamenti, un cenno va fatto anche al potere, che potremmo definire inibitorio, della ragione, cioè del pensiero logico e codificato.

Insomma, mi riferisco alle costruzioni verbali e scritte che seguono prevalentemente la ragione e quindi la logica, utilizzate per farsi capire dagli altri e,forse, per capire e ordinare ciò che noi stessi pensiamo.

Ebbene, nell’atto della poetica”creazione”  le codifiche logiche possono essere d’intralcio. Qui intendo per “creazione” la  giustapposizione-assemblaggio, e non  nel senso divino: dal nulla qualcosa.

Bene. Che siano oltrepassate quando se ne ravvisi la necessità.

Ma l’oltrepassamento non può significare l’eliminazione, la nullificazione del mondo logico.

Significa accompagnarsi (confliggendo, in sintonia, o magari controllandolo) ad esso con nuove, inedite, interessanti, curiose, accattivanti, profonde, superficiali, tristi, gioiose, sentimentali, amorevoli, delicate, aggressive, violente, mortifere, spirituali, composizioni semantiche.

Facendo questo, ammesso se ne abbia la capacità o la volontà, sarebbe meglio non entrare in un mondo altro, detto della follia o della “depresso-consunzione”, anche se quasi sempre non è possibile decidere in anticipo la meta che verrà raggiunta: la strada da percorrere è quella che troviamo di fronte, sotto, in alto e ai lati, dentro noi stessi.
Spesso è già tracciata e, magari, è sempre la medesima.

Ma lasciamo stare questi teleologismi che sembra rendano la realtà, non soltanto poetica o immaginata, inemendabile.
Un po’ di speranza alla Ernst Bloch (“Il principio speranza”), mi pare indicazione pedagogica e, in fin dei conti, pure terapeutica.

Forse davvero ognuno di noi è fondamentalmente oltrepassato dal contesto, dallo spirito del tempo, in cui si evolve la propria esistenza (Foucault, Levi-Strauss, ecc.).
In che misura, comunque, non è possibile saperlo e solo l’azione personale può, se non altro, far credere che invece la nostra volontà determini fondamentalmente la realtà, anche e forse soprattutto sociale, che ci è dato vivere.

In conclusione, si fa per dire, la ragione, intesa come coscienza e autocoscienza, senza entrare in sottigliezze semantico-filosofiche, può essere tranquillamente “passata per le armi”, essendo, con tutta probabilità, un “errore” evolutivo contro cui si debbono fare i conti ogni giorno.

Tuttavia è anche possibile essere razionali senza avere l”autocoscienza, ma pure questo è un discorso lungo e irto di ostacoli, tangenziale alle questioni poesia, follia, ragione, oggetti di riflessione di questo breve articolo.

PS
Interessante vedere come a cavallo tra il secolo ‘400 e ‘500 si esprima, riguardo alla follia, Erasmo da Rotterdam, col suo celebre “Elogio della follia” .
Inoltre, per seguire le concezioni sulla follia a partire dall’Età Classica, è utile leggere l’altrettanto celebre  “Storia della follia nell’Età Classica”, del filosofo francese M. Foucault.